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La monarchia romana

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Par   •  7 Janvier 2016  •  Étude de cas  •  14 567 Mots (59 Pages)  •  808 Vues

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L’ETA’ MONARCHICA

Le condizioni economiche e l'ambiente materiale nel Lazio arcaico - Il paesaggio fisico in cui si situano i più antichi insediamenti umani che daranno origine a Roma e alle altre città del Latium vetus agli inizi dell'ultimo millennio a.C. non era molto diverso da quello odierno, ma più accidentato, il che contribuiva all'isolamento delle zone elevate e delle comunità umane ivi raggruppate. Nella più antica storia delle primitive popolazioni laziali, sino agli inizi dell'ultimo millennio a.C., è verosimile che la base economica sia stata rappresentata dall'allevamento, ovino e suino. Tuttavia, già in epoca piuttosto risalente, accanto alla pastorizia, era nota e praticata dalle popolazioni latine una forma primitiva di agricoltura in cui doveva avere un'importanza notevole il farro, un cereale povero (dal punto di vista alimentare), ma resistente e adatto alle zone umide. Esso sopravvivrà, in età più avanzata, in alcune cerimonie religiose e in particolare nella forma arcaica e solenne di matrimonio romano. Abbastanza risalente appare anche lo sfruttamento di certi alberi da frutta, in particolare il fico, mentre invece l'ulivo e soprattutto la vite assumeranno importanza solo in età successiva.

Quando, nel corso dell'VIII secolo, le condizioni economiche delle popolazioni laziali subirono un incremento, aumentò l’importanza delle strutture territoriali atte ad assicurare un sistema più o meno ampio di collegamenti. È in quest'epoca che acquistano un notevole rilievo le rotte di carattere commerciale che uniscono l'Etruria alla Campania.

L'area cui si ricollega la storia delle comunità del Latium vetus, di dimensioni sono relativamente modeste, è limitata al nord dal Tevere, ad ovest dal mare, ad est dai primi altipiani che segnano il confine fra i Latini e le popolazioni sabine e su cui sorgono le città latine di Tibur e Praeneste e al sud dai Colli Albani.

Già nella sua prima età Roma, come le altre città del Lazio, si afferma come stato sovrano nella forma della pòlis, che non è una semplice realtà urbana contrapposta alla campagna o al villaggio, ma realizza l'ordinamento statale all'interno del quale si è partecipi della società civile e di una comunità politica. Per la sua esistenza è necessario l'affermarsi di un potere politico-militare centralizzato in grado di controllare in modo stabile un dato territorio e la popolazione ivi stanziata. Stabilità che può essere realizzata solo attraverso forme politiche e sociali atte a unificare in modo organico questa stessa popolazione. Tale processo di unificazione, prima dell'VIII sec. a.C., non ha avuto ancor luogo né per Roma né per nessun'altra comunità situata nell'area laziale.

Le dimensioni e le forme degli insediamenti precivici, che anticipano la successiva forma della città, rispondono a 2 opposti requisiti: da una parte le dimensioni dei vari insediamenti umani debbono aver superato il carattere atomizzato (se mai esistito) costituito dal mero aggregato familiare, o, comunque, da unità sociali troppo ridotte, perché solo così è possibile uno sfruttamento stabile di un'area territoriale ben determinata e adeguatamente difesa. Vi è tuttavia un limite ad una crescita illimitata dei vari gruppi di popolazione, rappresentato dalla crescente difficoltà di assicurarsi lo sfruttamento di zone troppo ampie di territorio. Non può meravigliare quanto gli archeologi dicono circa il carattere demograficamente limitato delle comunità che, ancora nella prima metà dell'VIÌI secolo, appaiono disseminate nell'area laziale. Si tratta sempre di forme evolutive incerte, di villaggi composti di poche capanne, destinati spesso, piuttosto che a evolvere verso forme cittadine, a regredire nel quadro di un'indistinta prevalenza della campagna.

Plinio menziona l'esistenza di 30 populi uniti in una lega religiosa, che aveva come sede il monte Albano. Questi populi, designati per l'appunto come Albenses, sarebbero stati tutti destinati a dissolversi in età storica senza lasciar traccia.

Le strutture sociali preciviche - La comunità di villaggio è l'unità di popolazione più arcaica che darà luogo alle successive realtà proto-urbane; per quanto riguarda il tipo di organizzazione sociale e politica cui essa corrispondeva, un'idea ricorrente, già presente nei filosofi greci, è che la città-stato fosse il punto di arrivo di un processo di crescita della società umana che vedeva nella famiglia naturale (il padre e i suoi più diretti discendenti) il nucleo originario. Vi sarebbe quindi un elemento comune sia alla più piccola cellula della società umana, sia alla forma politicamente più compiuta che è lo stato stesso. Di tale idea è conseguenza quasi inevitabile l'ipotesi di una spontanea formazione del modello cittadino, a seguito di un processo di crescita o di aggregazione dei gruppi minori realizzata in modo naturale.

Lo storico che, in Italia, più coerentemente ha cercato di sviluppare e sistemare questo complesso di orientamenti e di idee è stato Pietro Bonfante, per il quale, nel corso della storia di Roma, elementi diversi avrebbero assolto ad una funzione sostanzialmente identica. Lo studioso italiano partiva infatti dall'idea (condivisa allora da tutta la storiografia giuridica europea) che lo stato fosse una costante nella storia delle società umane e che esso andasse identificato, di volta in volta, con organismi diversi, a seconda del grado di sviluppo di queste stesse società.

La storia di questa istituzione poteva quindi esser tracciata fondandosi su uno dei fondamentali assunti di quegli orientamenti evoluzionisti che allora dominavano anche il campo delle scienze sociali, secondo cui ogni organismo si svilupperebbe necessariamente da forme più elementari verso dimensioni maggiori e più complesse. L'idea che la famiglia e poi la gens o la tribù avessero, nell'età più antica, assolto alle funzioni che saranno in seguito assunte dalla città-stato sembrava poter spiegare la posizione del pater della familia proprio iure, che, per molti secoli dopo la definitiva costituzione della città, conservò un complesso di poteri molto vasti. La potestas del pater, nella ricostruzione bonfantiana, sarebbe quindi il residuo di un più definito potere sovrano del capo su un gruppo politico che si estendeva al territorio in cui era stanziato il gruppo familiare e a tutti i membri di questo.

I Romani conoscevano diversi tipi di famiglia, ma la figura destinata ad assumere in seguito la maggior importanza è la familia proprio iure, che rappresenta l'unità elementare all'interno di un sistema matrimoniale rigidamente monogamico: è la coppia di sposi con i suoi diretti discendenti. Nella familia proprio iure convivono, sottoposti alla potestas del padre, la di lui moglie, i figli e le figlie non sposate o sposate sine manu e i successivi discendenti per linea maschile, nonché le loro mogli. Agli effetti dei rapporti successori, dell'eventuale tutela degl'impuberi e delle donne, accanto alla familia proprio iure, i Romani, in età più avanzata, conoscono e applicano un criterio più vasto di parentela; con la familia communi iure, estendono il vincolo di agnazione a tutti i discendenti, sempre per linea maschile, da un comune capostipite. Mentre presupposto della familia proprio iure è l'esistenza di un pater vivente, nel pieno della sua potestas, in quest'altra figura il capostipite è invece rappresentato da un antenato non più vivente. Secondo alcuni romanisti la famiglia agnatizia riunirebbe insieme gli agnati sino al VI grado, ma le testimonianze romane non confermano questa supposizione, talché sembra più esatto ammettere l'identità della familia communi iure con l'agnazione in senso lato: un vincolo che sussiste sino a quando resti memoria precisa e si abbiano prove della comune discendenza dall'originario capostipite. Vi è un momento tuttavia in cui tale ricordo viene offuscandosi e si confondono le diverse genealogie. A questo punto, sopravvive solo una generica e imprecisa coscienza di un'origine comune e di una lontana parentela, le cui testimonianze effettive sono il nome e la partecipazione a un comune culto gentilizio. Ma quando solo questi elementi provano una lontana e generica discendenza comune, non ci si trova più di fronte alla famiglia agnatizia, ma alla gens. Secondo questa interpretazione, la gens si fonda su un vincolo di sangue come la familia communi iure, ma mentre per quest'ultima tale legame è effettivamente attestato, per la gens, esso assume un semplice carattere presuntivo.

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